È una poesia del quotidiano quella di Kathleen Jamie, e vale almeno per quelle contenute nell’antologia curata e tradotta da Giorgia Sensi, La casa sull’albero, Ladolfi. Una poesia delle piccole cose, delle consuetudini che si meritano uno sguardo differente per essere nuovamente sorprendenti. Una poesia domestica, si direbbe, eppure pungente poiché punta il dito, quasi di nascosto, su ciò che l’abitudine non è in grado di farci vedere del nostro mondo. Come se il poetico appartenesse a tutte le cose, se solo lo si volesse vedere, se solo ci si prendesse il tempo necessario per l’attenzione.
Lo sprazzo
Ogni metà febbraio
arrivano quei primi giorni
quando il sole sorge
finalmente più alto
della Black Hill. La luce
e una brezza pazza
vengono dalla stessa direzione –
le zolle rivoltate brillano, i rami
più alti degli alberi si piegano
tremanti col vento.
Irrompe, questa vispa coppia,
dal lontano sud
ovest e benché ci bruci
gli occhi avvezzi all’inverno
guarda, gridiamo, eccola.
Ecco, è lo stupore che rinnova il mondo e a tessere i versi della Jamie, e nella sua poesia trovare costantemente rinnovato, anche nella abitudinaria quotidianità, l’incanto della prima volta. Come in questa poesia, dove ignoriamo a chi appartenga la giacca verde, dove non comprendiamo a pieno cosa sia accaduto al suo possessore, ma di certo ci facciamo cogliere dal crescere di un senso di liberazione, o di emancipazione che raggiunge l’apice davanti a un fosso da saltare, e lo si salta.
Incantesimo
Quando mi accorsi di averti perduto –
non eri accanto a me, né davanti,
né a destra né a sinistra
la tua giacca verde non si muoveva
in nessun punto tra gli alberi –
attesi a lungo
prima di procedere. Non un solo
scricciolo saltellava nel sottobosco,
non un rametto scrocchiava.
[…] Cercai
di chiamarti, o credo
di averlo fatto, ma il tuo nome
mi si appassì sulla lingua,
così invece proseguii
per i benefici effetti del bosco,
e puntuale presi a chiedermi
se non avevo semplicemente
inventato tutto. Te,
voglio dire, tutto il resto,
la mia vita intera. In ogni modo,
niente poteva toccarmi ora
tranne i miei ospiti, che si mostravano
come diffusa luce dorata,
come ragnetti
a frugarmi i capelli…
Che gratitudine provai allora –
potrei scomparire per una vita,
forse sette anni! –
e una joie de vivre così repentina
che quando un fosso mi si spalancò
davanti all’improvviso
lo saltai, leggera come una ragazzina –
sì, lo saltai di netto,
senza pure pensarci su.
Anche una vecchia barca, ormai inservibile e ormeggiata distante da quel mare per il quale è stata costruita, diventa metafora della vecchiaia, dalla quale tuttavia Jamie prende spunto per dipingere un paesaggio di straordinaria gentilezza, e in questa gentilezza appoggiare un visione della vita che alla nostalgia toglie la spina dei rimpianti.
La revisione (The Overhaul)
Guarda – è la Lively,
tirata in secca sulla battigia
su un carrello con due
gomme sgonfie. Cosa –
più di 4 metri? A fasciame
sovrapposto e legata a poppa
a una pila di blocchi di granito,
ma con la prua
che ancora punta a ovest
giù nella piccola baia,
giù verso l’oceano,
dove tutto quanto succede.
Lontano dalla costa
passa una strada, per i poderi
sparpagliati sul pendio
dove svolazza il bucato,
e si ferma lo scuolabus
e circa una volta la settimana
la biblioteca ambulante;
ma guarda questa
chiglia di un verde uovo d’anatra
tutta corrosa dal sale,
e l’asta di prua, più alta
– come una stella del cinema –
di quanto la immagini,
slanciata per tenere il mare
se si alza un’onda
e tutti si spaventano…
No, non dev’essere facile,
quando l’unico spruzzo che lambisce
le tue fiancate tutta l’estate
è quello in odore di fiori di camomilla;
quando piccole onde si accavallano
a meno di un tiro di schioppo
col tuo buon nome
scritto su ognuna –
ma suvvia, Lively,
succede alla tua età,
È un gioco fatto di attesa,
e pazienza, pazienza.
Immagine di Joseph Hoflehner